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Immagine del redattoreManuela Troilo

La Gatta Cenerentola di Basile

La Gatta Cenerentola è il sesto passatempo della prima giornata del cunto di Basile. È una favola molto nota e ne esistono diverse versioni asiatiche ed europee. La più antica versione scritta europea è proprio quella di Basile, ripresa in seguito da Charles Perrault e dai fratelli Grimm. Una antichissima versione della favola è raccontata dal greco Strabone nell’opera Geografica. La favola ha avuto innumerevoli trasposizioni teatrali, musicali e cinematografiche.

Nella favola di Basile Zezzolla, questo il nome della ragazza, un giorno, su suggerimento della maestra, uccide la matrigna rompendole il collo con il coperchio di una cassapanca e poi convince il padre a sposare la maestra. Una volta sposata, la maestra da buona diventa cattiva e porta a casa le sue sei figlie. Zezzolla finisce in cucina e da allora il suo nome diviene Gatta Cenerentola....

Cinderella - John Everett Millais - esponente della confraternita dei Preraffaelliti 1881

C’era, dunque, una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia che gli era così cara che non ci vedeva per altri occhi. Le aveva dato una brava maestra, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le dimostrava un affetto che non si può descrivere. Ma il padre si era risposato da poco e aveva preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina e questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cère brusche, facce storte, occhiate arrabbiate da fare paura. La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna, e le diceva: “Oh Dio, e non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tanti sorrisi e carezze?”. E tante volte le ripeté questa cantilena, che le mise una vespa nell’orecchio, e la maestra, accecata dal diavolo, una volta le disse: “Se farai come ti suggerisce questa testa matta, io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei” Stava per continuare , quando Zezolla (che così si chiamava la giovane) la interruppe: “Perdonami se ti rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitta e sufficit; insegnami l’arte, che io sono nuova: tu scrivi e io firmo”. “Orsù! – replicò la maestra, – ascolta bene, apri le orecchie, e avrai sempre pane bianco di fior di farina. Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi, che stanno nel cassapanca grande del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e dirà: – Tieni il coperchio. – E tu, tenendolo, mentre lei andrà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, che le romperà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe carte false per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, pregalo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona della mia vita”. Udito il disegno, a Zolla ogni ora parve mille anni; e, messo in atto punto per punto il consiglio della maestra, quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della matrigna, cominciò a toccare i tasti al padre perché si sposasse con la sua maestra. Dapprima, il principe prese la cosa come uno scherzo; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che alla fine colpì di punta, ed egli si piegò alle parole della figlia. Così si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una festa grande. Ora, mentre gli sposi stavano felici, Zezolla si affacciò a un terrazzino della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: “Quando ti vien desiderio di qualche cosa, manda a domandarla alla colombella delle fate dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito”. Per cinque o sei giorni la nuova matrigna ricoprì di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con i migliori vestiti. Ma, dopo pochissimo tempo, mandò al diavolo e scordò del tutto il favore ricevuto (oh triste l’anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere al primo posto le sue sei figlie, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito, presele in grazia, si fece cadere dal cuore la propria figlia. E Zezolla, perdi oggi, manca domani, finì col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dalle vesti di seta e oro agli strofinacci, dagli scettri agli spiedi. Né solo cambiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata “Gatta Cenerentola”. Ora avvenne che, dovendo il principe andare in Sardegna per cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi nastri per i capelli, chi trucchi per il viso, chi giocattoli per passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, e quasi per scherno, egli disse alla figlia: «E tu, che cosa vorresti?». Ed essa: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, mano tua». Partì il principe, sbrigò i suoi affari in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e si dimenticò di Zezolla. Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiegate le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal porto: pareva che ne fosse trattenuto dalla remora 1. Il padrone della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli disse: «Sai perché non potete più staccarvi dal porto? Perché il principe, che viene con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutte, tranne del sangue proprio». Appena svegliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, raccomandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche dono. Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che pareva un gonfalone2, e gli disse di ringraziare la figliuola della buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con queste parole, gli porse un dattero, una zappa, un secchietto d’oro e un asciugatoio di seta: il dattero da esser piantato, e le altre cose per coltivarlo e curarlo. Il principe, meravigliato di questi doni, salutò la fata, e tornò al suo paese; dove diede alle figliastre le cose che avevano desiderate e in ultimo diede alla figlia il dono della fata. Zezolla, felice da non stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso e mattina e sera lo zappettava, lo innaffiava e lo asciugava col tovagliolo di seta. Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alto come una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò alla fanciulla: «Che cosa desideri?» Zezolla rispose che desiderava uscire qualche volta di casa, senza che le sorelle lo sapessero. Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, vieni alla pianta e dille:

Dattero mio dorato,

con la zappetta d’oro t’ho zappato;

con il secchietto d’oro, innaffiato;

con la fascia di seta t’ho asciugato.

Spoglia te e vesti me!

Quando poi vorrai spogliarti, cambia l’ultimo verso e di’: Spoglia me e vesti te! Venne un giorno di festa, e le figliuole della maestra erano andate in processione fuori di casa, tutte spampanate, agghindate e imbellettate, tutte nastrini, campanellini gingillini, tutte fiori odori cose e rose. Zezolla corse allora dalla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu sistemata come una regina, sopra un cavallo con dodici paggi lindi e pinti, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero, ma si sentirono venire l’acquolina in bocca per le bellezze di questa splendente colomba. La sorte volle che nello stesso luogo capitasse il re, che alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla rimase incantato, e ordinò al suo servitore più fedele di informarsi di quella bellezza, chi fosse e dove abitasse. Il servitore si mise subito a seguirla. Ma lei, che s’accorse dell’agguato, gettò una manciata di monete d’oro, che s’era fatte dare dal dattero per questo scopo; e il servitore, adocchiati quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire il cavallo, fermandosi a raccogliere i denari. Zezolla entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo in cui la fata l’aveva istruita; arrivarono poi le sei sorellastre, che per farle invidia raccontarono le cose belle, che avevano viste alla festa. Il servitore, intanto, tornò dal re e gli raccontò il fatto dei denari, quello si arrabbiò molto e gli urlò che, per quattro monete, aveva venduto il suo piacere, e che, a qualsiasi costo doveva fare in modo nella prossima festa di sapere chi fosse quella bella giovane e dove si trovava quel bel uccello. Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte belle ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare; e lei subito corse al dattero, disse le solite parole, ed ecco venire fuori una schiera di damigelle, chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di zucca, chi col ferro per arricciare, chi col rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte le si misero attorno, la fecero bella come un sole, e la posero in una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffieri e paggi in livrea. E arrivata nello stesso luogo dell’altra volta, aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re. Anche questa volta, al ritorno, il servitore le andò dietro, ma lei per non farsi raggiungere gettò una manciata di perle e gioielli, e quel buon uomo non poté non chinarsi a pigliarli, perché non erano cose da lasciar perdere e così ebbe tempo di ritornare a casa e spogliarsi come al solito. Il srvitore tornò tutto mogio dal re che gli disse: “Per l’anima dei morti tuoi, se tu non mi ritrovi quella giovane, ti do una solenne bastonatura e tanti calci nel sedere quanti peli hai nella barba!” Alla nuova festa, quando già le sorelle erano uscite, Zezolla tornò dal dattero e ripetendo la canzone fatata, fu vestita superbamente e collocata in una carrozza d’oro con tanti servitori attorno, che pareva una prostituta arrestata durante il passeggio e circondata dagli sbirri. E dopo aver fatto invidia alle sorelle se ne andò, ma questa volta il servitore del re si era cucito a filo doppio alla carrozza. Vedendo che le era sempre alle costole, gridò: “Sferza cocchiere!” e la carrozza si mise a correre con tanta furia, che le cadde dal piede la pianella3, che non c’era cosa più bella. Il servitore, non potendo raggiungere la carrozza che ormai volava, raccattò la pianella e la portò al re, raccontandogli quello che gli era accaduto. Il re prese la pianella tra le mani e disse: “Se il fondamento è così bello, che sarà mai la casa? O bel candeliere, dove è stata la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri, attaccati alla lenza d’Amore, con la quale ha pescato quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e, se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso toccare i capitelli, bacio le basi! Voi siete stati ceppi di un bianco piede, e ora siete tagliuola d’un cuore addolorato. Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e mezzo di più; e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!” Ciò detto, il re chiama lo scrivano, comanda al trombettiere, e tu­tu­tu, fa pubblicare un bando che tutte le donne del paese vengano a una festa e a un banchetto che ha deciso di dare. Nel giorno stabilito, oh bene mio! Che banchetto fu quello! Da dove arrivarono tante pastiere e casatelli4? Da dove gli stufati e le polpette? i maccheroni e i ravioli, che poteva saziarsi un esercito intero? Le femmine c’erano tutte, e nobili e no, e ricche e povere, e vecchie e giovani, e belle e brutte e, dopo che ebbero ben mangiato, il re, fatto il brindisi, si mise a provare la pianella a una a una a tutte le invitate per vedere a chi andasse a pennello, in modo che egli potesse dalla forma della pianella riconoscere quella che cercava. Ma non trovò alcun piede a cui andasse bene e stava per disperarsi. Tuttavia, fatto silenzio, disse: “Tornate domani a fare penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, chiunque sia”. Parlò allora il principe: “Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi”. Rispose il re: “Questa sia la prima della lista, perché così mi piace”. Così partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e, insieme con le figlie di Carmosina anche Zezolla, e appena il re la vide, ebbe l’impressione che fosse quella che desiderava, ma fece finta di nulla. Ma, finito di mangiare, si venne alla prova della pianella, che, appena fu avvicinata al piede di Zezolla, si lanciò di per sé stessa, come il ferro corre alla calamita, a calzare quell’ovetto dipinto d’Amore. Il re allora la prese tra le braccia, la portò sotto il suo baldacchino e le mise in testa la corona, ordinando a tutte di farle inchini e riverenze come alla loro regina. Le sorelle, livide d’invidia, non potendo reggere allo schianto dei loro cuori, filarono moge moge verso la casa della madre, confessando a lor dispetto che

è pazzo chi contrasta con le stelle

( Testo in Giambattista Basile Lo cunto de li cunti, a cura di Miche Rank, Garzanti, 2013, pp.124-139)

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